Tradurre il fantasy significa, in pratica, prendere un mondo inventato, che è stato creato da una persona con una determinata mentalità, descritto e definito da una determinata lingua…e trasportarlo in una lingua diversa, in una nuova struttura, reinventandolo da capo. Si possono perdere così tante cose, per la strada.
Una profezia, che in lingua originale era poetica e ritmata, può diventare sgraziata o ridicola. Il nome di un personaggio, che prima era pieno di significato, può diventare vuoto e senza senso. Un incantesimo o un luogo possono perdere la loro aura di mistero e interesse.
Ognuna di queste cose è importante, non va trattata con leggerezza, ognuna contribuisce alla bellezza della storia.
In questo tentativo di analizzare la traduzione del fantasy, ho scelto di concentrarmi sui nomi, perché è affascinante il modo in cui questo genere, più di tutti gli altri, dà importanza e significato ai nomi propri di persone e luoghi.
Quando ci si trova di fronte ad un testo fantasy, pieno di nomi che in lingua originale hanno un significato, noi come traduttori abbiamo due scelte: o rimaniamo fedeli al testo originale e li lasciamo come sono, rispettando la scelta dell’autore; oppure li traduciamo, cercando di rendere al meglio in italiano non solo il significato del nome, ma anche il suono, l’effetto che produce.
Ci si potrebbe chiedere, non è possibile andare nel mezzo? Non è possibile scegliere quali nomi tradurre, e quali lasciare in lingua originale?
Bhè, non proprio. Una traduzione ha bisogno di coerenza. Bisogna fare una scelta, e rimanerle fedeli.
Vediamo due esempi opposti.
"La Trilogia dei Lungavista", di Robin Hobb, nella traduzione di Paola Bruna Cartoceti. In questo caso la traduttrice ha fatto la scelta di modificare tutti i nomi che in lingua originale avevano un significato preciso, così che anche il lettore italiano ne capisse il senso.
In questo modo:
King Shrewd diventa Re Sagace
Chivalry diventa Chevalier
Verity diventa Veritas
Farseer, il cognome della famiglia reale, diventa Lungavista
Lady Patience diventa Lady Pazienza
Starling diventa Stornella
E molti altri ancora. La traduttrice fa questo, perché nel mondo creato da Robin Hobb, il nome che uno ha determina la sua personalità. Molto spesso durante la trama i personaggi riflettono sui propri nomi, e su come li hanno influenzati nella vita. È quindi fondamentale che anche il lettore italiano ne capisca fino in fondo il significato. Al punto che nomi come Chivalry o Verity vengono modificati solo poco, quel tanto che basta per renderli più chiari.
Regal, invece, non viene tradotto, perché è già perfettamente chiaro così.
E nomi come Kettricken, che sono scelti per sembrare strani e incomprensibili anche al lettore inglese, vengono lasciati inalterati.
Questo non succede solo per le persone, ma anche per animali e luoghi:
Nighteyes, il lupo inseparabile compagno del protagonista, diventa Occhi-di-Notte.
Buckkeep, la dimora della famiglia reale, diventa Castelcervo.
Questo crea una sensazione di intimità, nel lettore, che si sente del tutto immerso in un mondo di cui comprende ogni minima sfumatura
Al contrario, in "Il Castello Errante di Howl" di Diana Wynne Jones (traduzione di Daniela Ventura) i nomi rimangono inalterati. Evidentemente si è scelto di rispettare la creazione dell’autrice, anche se questo significa che il lettore italiano si perde qualche riferimento.
Howl significa “ululato”. In inglese, evoca un’idea di minaccia in avvicinamento, di fascino e pericolo, che si abbina bene all'idea di sé che il mago vuole dare.
Hatter, il cognome di Sophie, significa “cappellaio”. Un riferimento in più al fatto che all’inizio lei si sente destinata a mandare avanti il negozio di cappelli, senza poter avere altre ambizioni o speranze.
Market Chipping, la cittadina di Sophie, vuol dire “Avanzi del mercato”. Evoca un’idea di luogo piccolo, non molto ricco, senza pretese.
Porthaven significa letteralmente “porto”, e Kingsbury è “città del re”.
Alcuni di questi riferimenti sono sicuramente evidenti, anche dall'inglese. Altri no.
È comunque una buona scelta, perché lasciare tutti i nomi in inglese rafforza la sensazione di leggere una storia ambientata in un altro luogo, diverso da casa nostra.
Entrambe sono possibilità valide: tradurre i nomi, per far comprendere meglio il significato che portano. O lasciarli in lingua originale, per creare una sensazione di lontananza e mistero.
Quello che può lasciare il lettore un po’ perplesso è la via di mezzo.
Per esempio, i libri di "Harry Potter", nelle traduzioni di Marina Astrologo e di Beatrice Masini. A volte è difficile capire il ragionamento dietro alcune scelte.
Che Snape diventi Piton è comprensibile. Così come Mad-Eye diventa Malocchio.
Ma perché la professoressa di erbologia, che si chiama Sprout (che signfica germoglio), diventa la professoressa Sprite in italiano? Cosa c’entra Sprite con le piante? Se si traduce il nome, cambiandone però il significato, allora non ha senso.
Lo stesso Silente…Dumbledore significa bombo. L’insetto paffuto, rumoroso e indaffarato. Il nome fa riferimento alla vitalità del personaggio, al suo essere sempre ovunque, sempre apparentemente allegro e frizzante. Perché andare nella direzione completamente opposta e scegliere Silente?
E perché allora Greyback (“Manto grigio”) rimane in inglese? Perché Stan Shunpike diventa Stan Picchetto, ma Rita Skeeter non diventa Rita Zanzara?
In questo modo io lettore sono un po’ disorientato, non riesco a capire se il traduttore mi vuole venire incontro, oppure no.
O tutti o nessuno.
Per questo bisogna essere coerenti, scegliere una direzione e mantenerla.
C’è sempre un motivo per cui un autore sceglie un determinato nome per un personaggio o per un luogo, bisogna averne rispetto: bisogna riflettere sul significato che ha nella storia, e sui suoni che usa, e su come si integra in tutto il contesto del romanzo. Bisogna pensarci bene.
Perché un conto è dire che Aragorn è un Ramingo, un conto è dire che è un Forestale.
Tradurre il fantasy significa, in pratica, prendere un mondo inventato, che è stato creato da una persona con una determinata mentalità, descritto e definito da una determinata lingua…e trasportarlo in una lingua diversa, in una nuova struttura, reinventandolo da capo. Si possono perdere così tante cose, per la strada.
Una profezia, che in lingua originale era poetica e ritmata, può diventare sgraziata o ridicola. Il nome di un personaggio, che prima era pieno di significato, può diventare vuoto e senza senso. Un incantesimo o un luogo possono perdere la loro aura di mistero e interesse.
Ognuna di queste cose è importante, non va trattata con leggerezza, ognuna contribuisce alla bellezza della storia.
In questo tentativo di analizzare la traduzione del fantasy, ho scelto di concentrarmi sui nomi, perché è affascinante il modo in cui questo genere, più di tutti gli altri, dà importanza e significato ai nomi propri di persone e luoghi.
Quando ci si trova di fronte ad un testo fantasy, pieno di nomi che in lingua originale hanno un significato, noi come traduttori abbiamo due scelte: o rimaniamo fedeli al testo originale e li lasciamo come sono, rispettando la scelta dell’autore; oppure li traduciamo, cercando di rendere al meglio in italiano non solo il significato del nome, ma anche il suono, l’effetto che produce.
Ci si potrebbe chiedere, non è possibile andare nel mezzo? Non è possibile scegliere quali nomi tradurre, e quali lasciare in lingua originale?
Bhè, non proprio. Una traduzione ha bisogno di coerenza. Bisogna fare una scelta, e rimanerle fedeli.
Vediamo due esempi opposti.
"La Trilogia dei Lungavista", di Robin Hobb, nella traduzione di Paola Bruna Cartoceti. In questo caso la traduttrice ha fatto la scelta di modificare tutti i nomi che in lingua originale avevano un significato preciso, così che anche il lettore italiano ne capisse il senso.
In questo modo:
King Shrewd diventa Re Sagace
Chivalry diventa Chevalier
Verity diventa Veritas
Farseer, il cognome della famiglia reale, diventa Lungavista
Lady Patience diventa Lady Pazienza
Starling diventa Stornella
E molti altri ancora. La traduttrice fa questo, perché nel mondo creato da Robin Hobb, il nome che uno ha determina la sua personalità. Molto spesso durante la trama i personaggi riflettono sui propri nomi, e su come li hanno influenzati nella vita. È quindi fondamentale che anche il lettore italiano ne capisca fino in fondo il significato. Al punto che nomi come Chivalry o Verity vengono modificati solo poco, quel tanto che basta per renderli più chiari.
Regal, invece, non viene tradotto, perché è già perfettamente chiaro così.
E nomi come Kettricken, che sono scelti per sembrare strani e incomprensibili anche al lettore inglese, vengono lasciati inalterati.
Questo non succede solo per le persone, ma anche per animali e luoghi:
Nighteyes, il lupo inseparabile compagno del protagonista, diventa Occhi-di-Notte.
Buckkeep, la dimora della famiglia reale, diventa Castelcervo.
Questo crea una sensazione di intimità, nel lettore, che si sente del tutto immerso in un mondo di cui comprende ogni minima sfumatura
Al contrario, in "Il Castello Errante di Howl" di Diana Wynne Jones (traduzione di Daniela Ventura) i nomi rimangono inalterati. Evidentemente si è scelto di rispettare la creazione dell’autrice, anche se questo significa che il lettore italiano si perde qualche riferimento.
Howl significa “ululato”. In inglese, evoca un’idea di minaccia in avvicinamento, di fascino e pericolo, che si abbina bene all'idea di sé che il mago vuole dare.
Hatter, il cognome di Sophie, significa “cappellaio”. Un riferimento in più al fatto che all’inizio lei si sente destinata a mandare avanti il negozio di cappelli, senza poter avere altre ambizioni o speranze.
Market Chipping, la cittadina di Sophie, vuol dire “Avanzi del mercato”. Evoca un’idea di luogo piccolo, non molto ricco, senza pretese.
Porthaven significa letteralmente “porto”, e Kingsbury è “città del re”.
Alcuni di questi riferimenti sono sicuramente evidenti, anche dall'inglese. Altri no.
È comunque una buona scelta, perché lasciare tutti i nomi in inglese rafforza la sensazione di leggere una storia ambientata in un altro luogo, diverso da casa nostra.
Entrambe sono possibilità valide: tradurre i nomi, per far comprendere meglio il significato che portano. O lasciarli in lingua originale, per creare una sensazione di lontananza e mistero.
Quello che può lasciare il lettore un po’ perplesso è la via di mezzo.
Per esempio, i libri di "Harry Potter", nelle traduzioni di Marina Astrologo e di Beatrice Masini. A volte è difficile capire il ragionamento dietro alcune scelte.
Che Snape diventi Piton è comprensibile. Così come Mad-Eye diventa Malocchio.
Ma perché la professoressa di erbologia, che si chiama Sprout (che signfica germoglio), diventa la professoressa Sprite in italiano? Cosa c’entra Sprite con le piante? Se si traduce il nome, cambiandone però il significato, allora non ha senso.
Lo stesso Silente…Dumbledore significa bombo. L’insetto paffuto, rumoroso e indaffarato. Il nome fa riferimento alla vitalità del personaggio, al suo essere sempre ovunque, sempre apparentemente allegro e frizzante. Perché andare nella direzione completamente opposta e scegliere Silente?
E perché allora Greyback (“Manto grigio”) rimane in inglese? Perché Stan Shunpike diventa Stan Picchetto, ma Rita Skeeter non diventa Rita Zanzara?
In questo modo io lettore sono un po’ disorientato, non riesco a capire se il traduttore mi vuole venire incontro, oppure no.
O tutti o nessuno.
Per questo bisogna essere coerenti, scegliere una direzione e mantenerla.
C’è sempre un motivo per cui un autore sceglie un determinato nome per un personaggio o per un luogo, bisogna averne rispetto: bisogna riflettere sul significato che ha nella storia, e sui suoni che usa, e su come si integra in tutto il contesto del romanzo. Bisogna pensarci bene.
Perché un conto è dire che Aragorn è un Ramingo, un conto è dire che è un Forestale.
Foto di Luisa Scopigno
Comments