Non ho mai apprezzato moltissimo i libri in prima persona. Anzi, sono sempre stata convinta di odiarli proprio.
Poi è successo che negli ultimi anni ho letto dei bellissimi romanzi, e a un certo punto mi sono resa conto che molti erano, in effetti, in prima persona. Forse allora questo tipo di narrazione ha dei pregi che non avevo considerato.
È ovvio che la scelta del narratore influenzi una storia in ogni suo singolo aspetto: trama, atmosfera, personaggi, non c’è niente che non si trasformi almeno in parte a seconda del punto di vista narrativo.
Ci ho riflettuto un po’, e ho capito che il narratore in prima persona presenta diverse caratteristiche, positive e negative.
Iniziamo dai difetti, giusto per toglierceli subito di torno.
Il più evidente è anche il motivo per cui sono sempre stata diffidente verso i narratori in prima persona: se il personaggio che parla non ti piace, il libro diventa completamente illeggibile. Non c’è speranza, è intollerabile leggere pagine su pagine raccontate da qualcuno che ti dà sui nervi. È successo così con “La Cena” di Herman Koch: tecnicamente è bello, però lo ricordo con fastidio, perché semplicemente non sopportavo il narratore.
Un altro problema è che è limitante avere accesso intimo ad un personaggio solo, e vedere gli altri solo attraverso i suoi occhi. Mi viene in mente la trilogia dei Lungavista, di Robin Hobb, che a me comunque è piaciuta davvero tanto, però in alcuni punti fa un po’ questo effetto qui. È Fitz a raccontarci la sua storia, che è bellissima e avvincente, ma mi ha lasciata con la voglia di conoscere meglio anche gli altri personaggi meravigliosi del libro, specialmente Kettricken e il mitico Veritas.
Quindi sì, decisamente è una scelta limitante che comporta diversi rischi, anche quando viene usata al meglio.
Ma com’è che, allora, non la trovo sempre insopportabile?
Se gestito bene, il narratore in prima persona può dare ad una storia due cose che io apprezzo tantissimo: emozione e complessità.
L’emozione deriva dal fatto di trovarsi direttamente nella testa di un personaggio, conoscendo ogni suo pensiero e vivendo gli eventi della trama direttamente, senza filtri. È anche per questo che “Leopardo nero, Lupo rosso” ha un impatto così intenso. Sia nella tenerezza:
“Non abbracci l’uomo che ti ha salvato la vita più volte di quanto una mosca batta le ciglia?” “Le mosche battono le ciglia?” Rise di nuovo e balzò giù dallo sgabello. Gli strinsi le mani, ma lui le liberò e mi abbracciò, stringendomi forte a sé. Stavo per dirgli che mi sembrava il gesto di un orientale con un debole per i ragazzini, quando mi sentii sciogliere fra le sue braccia, ero debole, così debole che gli restituii a malapena l’abbraccio. Avevo voglia di piangere, come un bambino, ma mi riscossi scacciando quell’emozione. Mi staccai per primo.
Che nella paura:
Ebbi un sobbalzo. Una voce che suonava come un fetore. Feci un passo indietro. Questo era il covo di uno dei vecchi dèi dimenticati, di quel tempo lontano quando gli dèi erano rozzi e immondi. O di un demone. Ma tutto intorno a me c’erano solo cadaveri. Il cuore, il tamburo che avevo dentro, batteva così forte che potevo udirlo. Il suo battito mi esplodeva in petto e io tremavo in tutto il corpo. La voce sozza disse: “Gli dèi ci hanno mandato uno grasso, sì proprio così. Uno grasso ci hanno mandato”
Ed è anche per questo che sono rimasta così colpita da “Dio di Illusioni” di Donna Tartt, che riesce a creare dalla primissima pagina un senso di inquietudine e malinconia.
Ma aver attraversato quei momenti è una cosa, uscirne, disgraziatamente, si è rivelato un altro paio di maniche, e sebbene una volta abbia pensato di aver lasciato quel burrone per sempre, in un pomeriggio di aprile di tanto tempo fa, ora non ne sono più così sicuro.
E ancora:
Suppongo che a un certo punto, nella mia vita, avrei potuto narrare un gran numero di storie, ma ora non ve ne sono altre. Questa è l’unica storia che riuscirò mai a raccontare.
In questo modo, il romanzo è formulato come una specie di confessione, un invito ad ascoltare il racconto di un uomo che ha fatto qualcosa di terribile e cerca di venirci a patti.
Questa intimità che si crea con il lettore è il motivo per cui Hugo Lamb in “Le ore invisibili” è così affascinante, nonostante le cose sbagliate che fa: conosciamo i suoi ragionamenti, le sue emozioni, la finezza della sua intelligenza. Non è una persona buona, ma ha dei sentimenti e delle ambizioni che lo rendono intrigante.
In via sperimentale, in silenzio, dico ti amo a Holly, che respira come il mare. Questa volta sussurro, quasi al volume del violino: “Ti amo”. Nessuno sente, nessuno vede, ma l’albero cade lo stesso nella foresta.
Dunque ciò che mi viene proposto è un vero e proprio patto faustiano.
Accenno un sorriso. “Faust” non ha un lieto fine.
Quale sarebbe il lieto fine? Quello del generale Philby?
“È mancato serenamente, circondato dai suoi cari”
Se questo è un lieto fine, se lo tengano pure, cazzo.
Quando arriva il momento critico, che cos’è Faust senza il suo patto?
Niente. Nessuno. Non avremmo mai sentito parlare di lui.
David Mitchell è un maestro assoluto della narrazione in prima persona, non avevo mai visto nessuno modellare la propria scrittura in così tanti stili diversi per adattarsi al modo di pensare di tanti personaggi differenti.
Per quanto riguarda la complessità, ho scoperto di apprezzare particolarmente il concetto di narratore inaffidabile, cioè quello che mentre racconta mente spudoratamente al lettore, oppure (ancora meglio) quello che racconta la storia dal suo punto di vista, ma potrebbe avere una percezione delle cose distorta almeno in parte. In questi casi la lettura si complica in modi interessanti: da una parte vivi la trama dal punto di vista del personaggio, ma contemporaneamente cerchi di capire come stanno realmente le cose.
Shirley Jackson è bravissima in questo, spesso scrive libri in cui non è chiaro davvero se le cose che il personaggio racconta siano reali oppure no, e fino a che punto.
In ogni caso, sto scoprendo il fascino del narratore in prima persona, anche se in generale non lo preferisco. Dal punto di vista dello scrittore, però, è affascinante immergersi completamente nella testa di un personaggio, chiedersi “cosa pensa? Come pensa? Che cosa nota nel mondo intorno a sé? Pensa liberamente, o tende a reprimere alcune idee? È sincero nel raccontare?”
È un lavoro complesso, e fragile. Ma quando viene bene, bisogna ammetterlo.
Foto di Elena Bertocci
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