“All'epoca in cui, ai piedi del suo letto, evocavamo la mantellina di Cappuccetto Rosso, e, fin nei minimi dettagli, il contenuto del suo cestino, senza dimenticare le profondità del bosco, le orecchie della nonna divenute d'un tratto stranamente pelose, e il paletto dell'uscio, non ricordo che trovasse le nostre descrizioni troppo lunghe”
In "Come un Romanzo" il buon Pennac trova un esempio semplice, per andare direttamente al cuore della questione: se una descrizione è noiosa, non è perché le descrizioni sono noiose in sé.
Spesso capita di scocciarsi, leggendo lunghi paragrafi in cui un autore si perde nella spiegazione dettagliata dell’aspetto di ogni singolo oggetto in un ambiente…e la domanda che viene sempre in mente, in questi casi, è “ma a che serve?”
Ecco, questa è la questione centrale. A che serve?
Una descrizione deve dare un contributo attivo alla storia. Un bambino non si stanca di sentire quanto sono lunghi e affilati i denti del lupo, perché sa che Cappuccetto Rosso è lì da sola con lui, indifesa, e ha bisogno di capire quanto è temibile il lupo per poter empatizzare con lei.
Una descrizione ben piazzata può fare molto per farci entrare in sintonia con un personaggio, come in "La Maschera del Nō" di Camille Monceaux:
“Entrammo a Edo senza intoppi.
La città non aveva certo lo sfarzo che mi sarei aspettato da una capitale. Non si vedevano né palazzi d’oro né pagode scintillanti, ma soltanto bancarelle piuttosto squallide e taverne su più piani ai lati della via che percorrevamo. Un odore acre di fumo, di fritto e di sterco di cavallo, così diverso dai profumi soavi della mia foresta natale, mi prese alla gola. Per terra solo un fango spesso, che s’incollava ai miei sandali di paglia. Il baccano era assordante. Ovunque edifici in costruzione, operai, martellate: la città-bastione dello shogun Ieyasu era in pieno sviluppo”
Qui seguiamo il protagonista Ichirō che ha lasciato la sua vita isolata sulle montagne per raggiungere Edo, la capitale dell’impero del Giappone. La descrizione serve a comunicare il suo stato emotivo (la sua delusione, il suo disagio, la sua nostalgia di casa) più che le condizioni oggettive del luogo.
L’autrice descrive al negativo, paragonando la città reale a quella immaginata da Ichirō: La città non aveva certo lo sfarzo che mi sarei aspettato da una capitale. Non si vedevano né palazzi d’oro né pagode scintillanti. Non ci dice come è, ci dice come non è. Usa aggettivi sgradevoli (bancarelle piuttosto squallide, odore acre, baccano assordante) in contrapposizione con le parole piacevoli riservate al passato (così diverso dai profumi soavi della mia foresta natale). Risulta ovvio che Ichirō amava profondamente la sua vita di prima, e non apprezza molto questo cambiamento. In questo caso, la descrizione serve a farci entrare nei suoi panni, a farci vedere il nuovo ambiente attraverso le sue emozioni.
Ma altre volte, una descrizione serve soprattutto a creare un’atmosfera per la storia, una sensazione generale che pervade tutta la narrazione, come in "Dracula" di Bram Stoker:
“D’un tratto mi sono reso conto che il cocchiere stava portando il calesse nel cortile di un gran castello in rovina, dalle cui alte, negre finestre non traspariva raggio di luce, e i cui merli crollanti si disegnavano frastagliati contro il cielo rischiarato dalla luna”
“Sì, devo aver dormito, perché, se fossi stato del tutto sveglio, non avrei potuto non notare l’approccio ad un luogo così singolare. Nella semioscurità, la corte pareva di notevoli dimensioni, e siccome parecchi anditi bui se ne dipartivano da sotto grandi archi a tutto sesto, forse sembrava più spaziosa di quanto non fosse in realtà. Ancora non ho avuto modo di vederla di giorno” DRACULA p. 42-43
Che bel modo di iniziare un romanzo gotico. “Un gran castello in rovina”. I “merli crollanti” (non “crollati”, ma “crollanti”, come se potessero pioverci in testa in qualsiasi momento) che si “disegnavano frastagliati”. Da notare anche l’incertezza del narratore, che non riesce neanche a comprendere bene l’ampiezza del luogo in cui si trova (“siccome parecchi anditi bui se ne dipartivano da sotto grandi archi a tutto sesto, forse sembrava più spaziosa di quanto non fosse in realtà”). Da qui in poi, siamo immersi in un mondo dai tratti oscuri e misteriosi, perfettamente comunicati fin dalle prime pagine.
Anche Gabriel García Márquez fa una cosa simile, all’inizio di “Cent’Anni di Solitudine”, usando una descrizione per creare esattamente l’atmosfera giusta:
“Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito”
Si crea questo senso di antichità (le pietre “bianche ed enormi come uova preistoriche”) e di purezza (acque diafane) che è fondamentale, all’inizio del romanzo. I cento anni del titolo cominciano qui, in un mondo di tanto tempo fa, semplice e naturale...che lentamente verrà trasformato e corrotto.
Con una descrizione, poi, si possono anche fare più cose insieme: sia creare un’atmosfera, sia esplorare le emozioni dei personaggi. Donna Tartt ci riesce benissimo. “Dio di Illusioni” ha un’atmosfera così forte da aver praticamente creato un nuovo genere, la “Dark Academia”: quelle storie ambientate in un’università, fra libri, edifici antichi, arte, caminetti accesi, stanze in penombra, alberi pieni di colori autunnali. Storie cupe e affascinanti, che raccontano l’amore per la conoscenza, ma anche la corruzione e i pericoli che ne possono derivare.
“Entrando nella biblioteca, mi mancò il respiro e mi bloccai di colpo: librerie chiuse a vetro e pannelli gotici si elevavano per quasi cinque metri, fino a un soffitto affrescato e decorato di stucchi. In fondo alla stanza c’era un camino di marmo, grande quanto un sepolcro, e un lampadario a petrolio, gocciolante di prismi e fili di sferette di cristallo, scintillava nella penombra”
Il protagonista rimane rapito dalla casa dei suoi amici, dalle immense librerie, dal soffitto affrescato, dall’enorme camino, dal lampadario luccicante…e questa è l’essenza del libro, Richard che viene affascinato dalle vite sofisticate dei suoi amici, piene di conoscenza e di arte, finché non rimane invischiato nell’oscurità che si cela al di sotto.
Se una descrizione risulta noiosa, quindi, è perché non ha uno scopo, o perché è troppo lunga o banale per lo scopo che dovrebbe avere. Tornando alla domanda posta all’inizio: “ma a che serve?”
A niente. Non serve a niente perdersi a mettere su pagina ogni minimo particolare che ci viene in mente su un ambiente.
Esiste però anche il problema opposto, la “sindrome della stanza bianca”: quando lo scenario non è comunicato abbastanza chiaramente, e leggendo è come se i personaggi galleggiassero nel vuoto (o fossero in una stanza bianca senza forme né funzione), perché non abbiamo niente che ci dia un contesto.
Un autore dovrebbe chiedersi: quali cose è più necessario dire, per raccontare questo posto? Di quali forme, colori, odori, suoni è meglio parlare? Che cosa noterebbero di più i personaggi, dato il loro stato emotivo?
È così che si ottiene l’effetto Cappuccetto Rosso, in cui noi, come i bambini che eravamo, ascoltiamo rapiti descrizioni che non sembrano più tanto lunghe, perché ci dicono esattamente quello che abbiamo bisogno di sapere.
Foto di Elena Bertocci
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