Fra i molti piaceri che nascono dal leggere una storia, ne esiste uno particolare: la sensazione precisa e solleticante di essere in balia di un narratore inaffidabile.
Chi è dunque questa affascinante figura? È il narratore di una storia, normalmente in prima persona, che per qualche motivo non sta dicendo la verità sui fatti che racconta: a volte mente attivamente al lettore, altre volte crede di stare dicendo la verità ma ha una visione distorta delle cose.
Quando questo accade, il lettore si trova di fronte ad un’occasione succosa per diventare parte attiva della storia: sta infatti al lettore capire che cosa sta davvero succedendo, sotto alle menzogne e alle falsità del narratore inaffidabile.
Va da sé che un elemento come questo va a nozze con generi letterari ricchi di suspense e di mistero: un bel noir o un bel poliziesco sicuramente ne traggono molti vantaggi. Ma più di tutto il narratore inaffidabile è adatto al genere horror, perché lascia il lettore privo di riferimenti rassicuranti. È come avventurarsi nel bosco in compagnia di un amico, e scoprire troppo tardi che ti sei inoltrato nel mezzo del nulla con un impostre, instabile e potenzialmente pericoloso.
È per questo che i romanzi di Shirley Jackson sono così assolutamente agghiaccianti: “L’incubo di Hill House”, certo, ma anche “Abbiamo sempre vissuto nel castello”, una discesa disturbante nella follia dal punto di vista di chi non sa di essere pazzo.
Alcune volte, il narratore inaffidabile si fa riconoscere subito, perché la distanza fra le sue parole e la realtà dei fatti è talmente evidente che salta subito all’occhio.
Questo è il caso, ad esempio, di “Casa di Foglie” di Mark Z. Danielewski. Il narratore, Johnny Truant, esordisce così nella sua prima pagina:
Per un po’ ho provato ogni pillola immaginabile. Qualsiasi cosa, pur di tenere a bada la paura. Excedrin PM, melatonina, L-triptofano, Valium, Vicodin, diversi membri della famiglia dei barbiturici. Una lunga lista di rimedi, spesso mischiati, il più delle volte abbinati a un generoso sorso di bourbon e a qualche tiro di bong, e ogni tanto perfino a una rinvigorente immersione nei vapori della cocaina. Non è servito a nulla.
Se il narratore inizia la sua storia spiegandoci che prende droghe di ogni tipo regolarmente e senza logica, è probabile che non ci si possa fidare particolarmente dei suoi ricordi e delle sue impressioni.
E, proseguendo, non si smentisce:
Lentamente, ma con costanza, il mio disorientamento è aumentato, così come il distacco nei confronti del mondo, e qualcosa di triste e spaventoso ha iniziato a tendermi gli angoli della bocca, ad affiorarmi dagli occhi. Ho smesso di uscire la sera. Ho smesso proprio di uscire. Nulla era in grado di distrarmi. Sentivo che stavo perdendo il controllo.
Johnny, il narratore, non si fa scrupolo nel descriverci la sua discesa nella follia dovuta alla paura. La sua paranoia, il suo isolamento. Addirittura ci dice chiaro e tondo “sentivo che stavo perdendo il controllo”.
Per cui, quando incontra qualcosa di orribile e apparentemente sovrannaturale, è normale per il lettore provare una punta di dubbio, insieme all’inquietudine:
Ma nelle narici ho un odore amaro, fetido, come se provenisse da qualcosa che non è umano, qualcosa che marcisce da anni e mi dice nel linguaggio della nausea che non sono solo.
C’è qualcosa alle mie spalle.
Forse Johnny è pazzo. Forse le cose orribili che vede sono solo allucinazioni. Ci dice anche che sua madre vive in un ospedale psichiatrico: non può essere, dunque, che ciò che racconta sia tutto frutto di una non curata malattia mentale?
Può essere. È una delle possibili interpretazioni del libro. D’altra parte, è anche possibile che ciò che dice sia in parte vero. Sta a noi decifrare il mistero, siamo gli unici giudici della sanità di Johnny e della veridicità del suo racconto.
Altre volte, però, non è così semplice accorgersi che siamo di fronte a un narratore inaffidabile. In questi casi, è come assistere a un gioco di prestigio: per tutto il libro segui docilmente la trama, fidandoti del personaggio narrante che ti conduce attraverso le sue vicende spiegandoti le sue motivazioni, finché alla fine…
Alla fine, scoprì che niente è mai stato come ti avevano fatto credere. Alla fine, ti accorgi che l’intera storia deve essere vista in un modo completamente nuovo, attraverso una lente del tutto diversa.
L’esempio classico è “Fight Club” di Chuck Palahniuk, per motivi universalmente noti. Ma in tempi più recenti è arrivato “La Meccanica degli Spiriti” di A.J. West, che ha usato questa precisa tecnica.
Per tutto il romanzo seguiamo il protagonista William, uno studioso rispettato che si dedica ad analizzare i fenomeni paranormali da un punto di vista scientifico. È un uomo di una certa ingenuità, però buono, e sincero, e racconta la sua storia con totale trasparenza.
Solo che quello che lui credeva essere vero, non lo è. La sua vita è costruita e gestita dalle persone intorno a lui, per tenere sotto controllo quegli attacchi di violenza che lui non ricorda nemmeno di avere.
“Si calmi, signor Crawford”, disse. “Non abbia paura, ho le medicine”.
M’infilai nello studio e scavalcai la scrivania, spalancai la finestra e scivolai lungo la grondaia mentre un paio di braccia si allungavano sul davanzale per cercare di afferrarmi. Caddi sull’erba e alzando lo sguardo, vidi Elizabeth e il dottore affacciati.
“Fermati, William!” gridò Elizabeth. “Dove stai andando?”
“Traditori!” proruppi in una voce aliena, prima di tapparmi la bocca con la mano e correre via dal cancelletto posteriore con uno strillo sconvolto.
William, che è apparso per tutto il romanzo tranquillo e controllato, alla fine è fuori di sé. Messo di fronte alla verità, è costretto a riconsiderare tutte le sue vicende secondo un’ottica completamente diversa, e lo stesso deve fare il lettore. Ciò che rimane, sotto le falsità e l’autoinganno, è la consapevolezza di quanto sia fragile l’essere umano. Di quanto sia facile perdersi, e di quanto sia pericoloso.
Che cos’avevo scoperto, dunque? Che nessuno è più disonesto di sé stesso? Che la certezza non è altro che credenza irragionevole?
Così conclude William la sua storia amara, priva di morale o insegnamenti.
Forse, più di ogni altra cosa, l’eterno fascino del narratore inaffidabile nasce da una paura che abbiamo tutti nel nostro profondo: la paura di perdere il controllo, di non saper vedere le cose per come sono, di diventare noi stessi narratori inaffidabili della storia storia.
Forse, davvero, ogni certezza non è altro che credenza irragionevole. E questo è senz’altro spaventoso.
Ma, come sempre, i libri ci offrono una via d’uscita: attraverso di loro, immergendoci in queste storie disturbanti, possiamo affrontare le nostre inquietudini più profonde e trovare una catarsi che spesso nella vita reale è impossibile avere.
Altri consigli di lettura sull’argomento:
“Shutter Island” di Dennis Lehane
“Il Talento di Mr Ripley” di Patricia Highsmith
“I Delitti di West Point” di Louis Bayard
“Loro” di Roberto Cotroneo
“Room (Stanza, Letto, Armadio, Specchio)” di Emma Donoghue
“Il Re in Giallo” di Robert William Chambers
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