(spoiler minimi per "I Pirati dell'Oceano Rosso" di Scott Lynch)
Per quanto la letteratura sia capace di esplorare i più cupi meandri delle relazioni umane (e ne è ben capace davvero), non c’è elemento letterario che sia così immediatamente confortante come la “found family”.
“Found family” (anche “famiglia d’elezione”: fondamentalmente, la famiglia che ti scegli da solo) è quell’elemento di trama che si verifica quando più personaggi, senza nessun legame di sangue, forgiano una relazione di profonda amicizia e fiducia, creando quella che è di fatto una famiglia per scelta.
Se vi dice qualcosa, è perché è uno schema di enorme successo che è stato utilizzato dagli autori di più alto rango (c'era ad esempio un certo gruppo di amici che si chiamava la Compagnia dell’Anello).
In genere, infatti, si tratta di personaggi che si ritrovano inaspettatamente insieme per motivi di trama (una persona da salvare, una missione da compiere, un lavoro da svolgere) e che, nel corso della narrazione, imparano a conoscersi e ad appianare le loro divergenze creando un gruppo saldo e leale. E guadagnandosi così l’affetto incondizionato di milioni di lettori.
Come mai questa cosa funziona così bene? Io credo che sia perché tocca un bisogno umano fondamentale di cui spesso veniamo privati, e che ci manca terribilmente: il bisogno di poter scegliere e di poter dare importanza a relazioni non di sangue, e non romantiche.
La società è soprattutto modellata sulla base della coppia, e della famiglia di sangue che ne deriva. Quante volte ci viene chiesto dov’è il fidanzato/la fidanzata, o quando ci decideremo a fare dei bambini? Addirittura gli estranei si sentono in diritto di fare queste domande.
Eppure, questa impostazione sociale è talmente riduttiva. E penso che, fra i suoi innumerevoli pregi, Il Signore degli Anelli sia rimasto in eterno nel cuore di lettori e spettatori proprio per il rispetto profondo con cui tratta l’amicizia.
Ora, non tutti gli scrittori sono J.R.R. Tolkien, e non tutte le "found family" risultano credibili ed efficaci sulla pagina. Fortuna che però abbiamo qualche bell’esempio a cui rifarci, da romanzi particolarmente ben riusciti.
Parlare di famiglia era un modo di parlare di un bisogno: quel bisogno di amicizia, di intimità, di un contatto umano che era talmente radicato nel genoma umano da far sì che chi non lo possedeva non era più del tutto umano. Era un cameratismo a caratteri cubitali, il sinonimo di una lealtà più forte del concetto a cui si riferiva.
Non possiamo non cominciare con The Expanse, che esprime lo stesso concetto con parole più efficaci delle mie.
The Expanse è una space opera che segue le vicende di Holden, Naomi, Alex e Amos, quattro persone che desiderano solo lavorare onestamente ai margini del Sistema Solare, lontano dai riflettori, nascondendo le ferite delle loro esperienze passate. Sfortuna vuole che si ritrovino imbarcati da soli sulla stessa nave, dove se la dovranno vedere con conflitti interplanetari e strane minacce aliene.
I quattro, che non sono abituati a stare a così stretto contatto, iniziano la loro convivenza sulla nave con un certo grado di goffaggine, imbarazzo e reticenza. Nel corso dei libri, però, arrivano a formare un gruppo affiatato, dove ognuno mette la sicurezza degli altri davanti alla propria, dove c’è assoluta fiducia, e dove ogni persona svolge un ruolo insostituibile.
È così confortante, in mezzo a sanguinosi scontri interplanetari, sostanze aliene mortali, crimini di guerra e uccisioni, trovare quei piccoli, dolci momenti di intimità a bordo della nave Rocinante. Come quando la Terra e Marte sono in guerra, ma i quattro riescono a liberarsi per una sera dalla tensione, condividendo un pranzo intimo e allegro.
Osservò il suo equipaggio, vedendo la tensione fuggire via dai loro volti e dalle loro spalle. Lui e Amos erano entrambi nati sulla Terra anche se, a colpo d’occhio, avrebbe detto che Amos aveva dimenticato tutto del suo mondo nativo nell’istante stesso in cui si era imbarcato. Alex veniva da Marte, e chiaramente la cosa gli piaceva. Bastava un errore da una delle due parti, e di entrambi i pianeti sarebbero rimasti soltanto due mucchietti radioattivi prima dell’ora di cena. In quel momento, però, erano tutti soltanto amici che condividevano un pasto. Era giusto così. Era ciò per cui Holden doveva continuare a combattere.
O come quando l’umanità sta per essere annientata da un’incomprensibile minaccia aliena, ma loro trovano comunque il momento per fare una torta di compleanno per una ragazzina di sedici anni sola e sperduta, che stanno cercando di aiutare.
Aveva un nodo alla gola e non avrebbe saputo dire cosa fosse. Forse gratitudine, forse tristezza, forse la conseguenza caotica di quel sogno vivido con suo padre. Amos e Jim iniziarono a cantare una canzoncina e Naomi e Alex si unirono a loro, battendo le mani. Era una cosa piccola, scontata e senza pretese, ma era anche uno sforzo non dovuto che l’equipaggio aveva fatto per lei. Quando Alex le disse di esprimere un desiderio e soffiare sulle candeline, soffiò e basta. Non riuscì a pensare a nulla che avrebbe potuto desiderare.
Ed è questo che succede anche nella vita reale, quando troviamo la nostra “found family”: in mezzo al caos e ai problemi, sappiamo che c’è sempre un luogo in cui saremo al sicuro, anche solo per un po’.
Un altro che ha una certa dimestichezza nello scrivere storie d’amicizia è il buon Stephen King. Grand’uomo. “It”, il suo romanzo che mi è rimasto più impresso, tratta l’amicizia fra i sette protagonisti come una cosa talmente potente da possedere una sorta di magia ritualistica: i sette amici, insieme, formano un tutt’uno, una forza magica in grado di opporsi all’orrore di It. E questo perché vivono in un mondo in cui gli adulti non riservano loro altro che pericoli e indifferenza, mentre invece i loro amici sono l’unica cosa profondamente autentica che hanno.
Incontrò lo sguardo di Richie. E gli sembrò quasi di udire lo scatto, quello di un ultimo ingranaggio che cadeva precisamente al suo posto in un congegno ancora misterioso. Fu come investito da scaglie di ghiaccio nella schiena. Adesso ci siamo tutti, pensò, e fu una riflessione così limpida, così giusta, che per un momento pensò di averlo detto a voce alta. Ma naturalmente non aveva bisogno di esprimersi a voce, perché lo vedeva negli occhi di Richie, di Ben, di Eddie, di Beverly, di Stan.
Adesso ci siamo tutti, pensò di nuovo. Dio, aiutaci tu. Adesso comincia davvero. Dio, ti prego, aiutaci.
È un momento solenne, quello in cui i sette amici si ritrovano tutti insieme per la prima volta. Sette bambini uniti da una rivelazione di assoluta chiarezza: insieme, loro sono una forza mistica capace di affrontare l’orrore che sta prendendo d’assalto la loro città. È una consapevolezza anche spaventosa, certo (“Dio, aiutaci tu. Adesso comincia davvero. Dio, ti prego, aiutaci”). Ma It, in fondo, è un romanzo che parla di come si sconfiggono le paure più profonde e orribili radicate dentro di noi: con la passione, e con l’affetto profondo.
Per questo il legame fra i Perdenti è così dolce e speciale:
Forse non esistono nemmeno amici buoni o cattivi, forse ci sono solo amici, persone che prendono le tue parti quando stai male e che ti aiutano a non sentirti solo. Forse per un amico vale sempre la pena avere paura e sperare e vivere. Forse vale anche la pena persino morire per lui, se così ha da essere. Niente amici buoni. Niente amici cattivi. Persone e basta che vuoi avere vicino, persone con le quali hai bisogno di essere; persone che hanno costruito la loro dimora nel tuo cuore.
“Persone che hanno costruito la loro dimora nel tuo cuore”. L’espressione calza a pennello: l’amicizia si costruisce, un piccolo atto di fiducia dopo l’altro.
Le famiglie di sangue, si sa, possono generare tensioni e conflitti difficili da risolvere. Le famiglie d’elezione non sono estranee ai conflitti, ma generalmente (se i personaggi sono scritti bene) si riesce a trovare un’elaborazione del conflitto che sia funzionale.
Proprio per questo motivo “I Pirati dell’Oceano Rosso”, secondo libro della serie dei Bastardi Galantuomini, è il mio preferito: Locke e Jean, i due protagonisti, sono amici per la pelle, ma hanno avuto un periodo di disaccordo. Si sono chiariti e scusati, tuttavia le conseguenze del loro litigio continuano a farsi sentire: si trovano a camminare sulle uova l’uno con l’altro, incerti se potersi del tutto fidare come prima.
Si è temporaneamente persa un po’ della loro spontaneità e naturalezza.
Jean sospirò, e ogni canzonatura uscì da lui come vino da una borraccia bucata. “Immagino…non ci resta che…Accidenti”
“Cosa?”
“Io, ehm…be’, al diavolo. Non mi crollerai di nuovo? Hai intenzione di restare affidabile?”
“Affidabile? Jean, puoi…accidenti, guarda coi tuoi occhi! Cosa sto facendo? Mi esercito, faccio programmi…e non faccio che chiedere scusa! Mi dispiace, Jean, davvero” (p.109)
[…]
“Ho detto qualche stupidaggine. Ma credevo di essere stato perdonato…ho capito male?” La voce di Locke si indurì. “Ora devo pensare che il perdono sia una cosa che può andare e venire come la marea?”
“Devo pensare che il perdono sia una cosa che può andare e venire come la marea?”
Ogni rapporto è messo alla prova, anche quelli più belli e solidi. Vorremmo non fosse così, ma la vita è complessa e faticosa, e non c’è modo di sfuggire.
Tuttavia, se abbiamo trovato una vera “found family”, possiamo sapere con sicurezza che ogni ferita verrà curata, ogni divisione ricucita con cura, perché abbiamo scelto delle persone che hanno la volontà di lavorare insieme a noi.
Così sì, anche Locke e Jean trovano la loro pace.
“Senti, ci sarebbe da affrontare un lungo e noioso discorso del tipo “Sono stato un cretino”, e mi sento ancora un po’ vittima di quel vino blu, perciò facciamo finta che…” “Mi dispiace”, disse Jean.
“No, quello spetta a me” “Volevo dire…abbiamo di nuovo scoperto i nostri lati spigolosi, vero?”
“Se c’è una cosa che una battaglia non fa, è calmare i nervi”
L’affetto è di così tanti tipi. Se siamo talmente attratti dalle storie con protagonisti uniti da incrollabili legami di amicizia, forse è perché in realtà nella nostra società è qualcosa che manca.
Questa volta, allora, concludiamo con un brindisi: che possiamo tutti trovare le nostre “found family”, dove sentirci al sicuro, e amati per ciò che realmente siamo.
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