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Immagine del redattorebertoccielena

E ora parliamo di prosa

Io credo che le case editrici stiano cercando di ucciderci a suon di libri scritti male.

E questa volta non parlo di costruzione della trama né di tematiche né di personaggi, è proprio un fatto semplice ed essenziale: usano parole brutte.

Questo è uno spreco. Il linguaggio è un coltello, a che cosa serve se è smussato?

Mi è sorto questo moto di fastidio per via di un romanzo che si intitola “I Sei Cloni” di Mur Lafferty. L’avevo comprato con grandi aspettative, perché la trama sembrava fresca e intrigante, proprio il mio genere; ho insistito, ho provato ad andare avanti e sono arrivata a più di metà, ma alla fine è diventato evidente che la mediocrità assoluta della prosa era un problema.

Facciamo un paio di esempi.


“Hiro e Maria erano fuori da una porta gialla a oblò alla fine di un corridoio, in un’area della nave dove lui non ricordava di essere mai stato, anche se a quanto sembrava doveva esserci andato spesso. Era situata a un livello più basso rispetto a dove vivevano loro, con una gravità un pochino superiore a quella a cui erano abituati, ma niente che non fossero in grado di gestire.

Lui aveva scaricato la colpa del suo nervosismo sui postumi della sbornia, e lei sembrava essersela bevuta”


A parte che l’ultima riga fa proprio ridere (non puoi parlare di postumi della sbornia e poi dire “lei se l’è bevuta”, è grammaticalmente buffo). Ma il ridicolo è l’unica emozione che viene fuori da queste righe. Il resto è il piattume più totale: “Era situata a un livello più basso rispetto a dove vivevano loro, con una gravità un pochino superiore a quella a cui erano abituati, ma niente che non fossero in grado di gestire”…affascinante.

Se mi scrivi frasi come “niente che non fossero in grado di gestire”, io immediatamente penso che allora questa informazione non è così importante, e potevi evitare di rallentare la lettura con dati di fatto irrilevanti.


“Un mondo senza la tecnologia della mappatura mentale pronta all’uso era sconosciuto a Hiro. Quella tecnologia aveva rivoluzionato la clonazione, facendo in modo che nascessero esseri adulti in cui era già stata riversata tutta la memoria del clone predecessore. Prima di allora, si potevano far nascere bambini geneticamente identici, tuttavia sarebbero cresciuti plasmati dal diverso impatto che l’influenza ambientale avrebbe avuto su di loro.

Ma poi arrivarono a mappare la mente, non più semplicemente il DNA”


Ed ecco lo spiegone. Per essere precisi, questo libro è pieno di spiegoni. Ogni poche pagine la storia si arena, e il narratore passa a raccontare al lettore tutti i dettagli di questo mondo: come funziona la clonazione, cos’è una mappa mentale, quali sono le leggi che ne regolano l’uso…

Le informazioni dovrebbero essere date organicamente tramite la trama e i dialoghi, altrimenti non vale. Ed è parecchio noioso.

Anche la formulazione è mortificante da quanto è banale. Voglio dire, il registro linguistico è il più piatto dell’universo (nessuna parola carica di significato, né parole auliche, né volgari, né strane, niente di niente, la noia assoluta). Figure retoriche? Cosa chiedo a fare. Per quanto riguarda la sintassi, è una serie di proposizioni semplici soggetto+verbo+complemento oggetto senza nessun estro né fantasia: “Quella tecnologia aveva rivoluzionato la clonazione”; “poi arrivarono a mappare la mente”; “Era situata a un livello più basso rispetto a dove vivevano loro”…futurismo spostati proprio.


Si può fare di meglio? Ovviamente sì, parecchio.


“Mi chiamo Ichirō. Sebbene sia stato conosciuto sotto altri nomi, rimango legato a questo come ci si affeziona a un abito liso e informe, che non è più degno di essere indossato ma che si conserva per la nostalgia di un momento, di un incontro il cui ricordo ci rimanda all’immagine di chi si sarebbe voluti essere o di chi si era convinti di poter diventare”

(Camille Monceaux, “Cronache dell’Acero e del Ciliegio – La Maschera del Nō”)


La prosa di Camille Monceaux è così dolce, e così malinconica.

C’è un contrasto netto fra la prima frase, di sole tre parole (“Mi chiamo Ichirō”), e la seconda frase, un periodo complesso con molte subordinate, centrato su una similitudine toccante: il nome che è stato annunciato nella frase prima, Ichirō, è come “un abito liso e informe”, qualcosa di familiare e amato ma non più adatto. È un simbolo di un’identità passata, ormai perduta, che “ci rimanda all’immagine di chi si sarebbe voluti essere o di chi si era convinti di poter diventare”.

C’è la sensazione che Ichirō ricordi con nostalgia le sue speranze di gioventù, e che le cose poi siano andate irrimediabilmente per il verso sbagliato.

Ogni parola gronda nostalgia.



“Ogni tanto, sul marciapiede, si inciampa in qualcuno con le mani legate dietro la schiena. Forse la polizia lo ha dimenticato la notte prima. Ho guardato in alto, oltre le insegne illuminate e, obliqua su un grattacielo, c’era la luna.

Le ho detto:

Cosa ci fa una ragazza come te in un posto come questo?”

(Stefano Benni, “Baol”)


Benni ha uno stile ironico, irriverente. È scrittura a sorpresa, inizi a leggere e non sai mai come finirà la frase. “Ogni tanto, sul marciapiede, si inciampa in qualcuno con le mani legate dietro la schiena”. Chiaro. Capita. Le parole scelte sono volutamente colloquiali, è il tono con cui potremmo dire “ogni tanto, d’inverno, i vetri delle macchine congelano”. Solo che qua si sta parlando di persone torturate, probabilmente morte, abbandonate per strada. “Forse la polizia lo ha dimenticato la notte prima”, come ci si dimentica di portare fuori la spazzatura.

Benni crea questo forte contrasto fra i vocali quotidiani che sceglie, e gli orrori indicibili che descrive. Serve a farci capire quant’è grottescamente normale la crudeltà, nella distopia di questo libro.

Ma il protagonista non è così indifferente, non è così abituato, si rende conto che questa violenza è sbagliata. Infatti trova l’unico elemento di bontà e purezza che esiste intorno a lui, la luna, e le chiede con ironia ma anche con tristezza: “cosa ci fa una ragazza come te in un posto come questo?”



“I primi ad arrivare furono naturalmente i bambini. La scuola era terminata da poco per le vacanze estive, e il senso di libertà dava ai più un certo disagio; tendevano a riunirsi pian piano in crocchi per qualche momento prima di sfrenarsi nel gioco, e parlavano ancora della classe e del maestro, di libri e reprimende. Bobby Martin si era già riempito le tasche di sassi, e gli altri ragazzi seguirono presto il suo esempio, scegliendo i sassi più lisci e rotondi; alla fine Bobby, Harry Jones e Dickie Delacroix […] fecero un gran mucchio di sassi in un angolo della piazza e lo protessero dalle incursioni dei compagni”

(Shirley Jackson, “La Lotteria”)


Shirley Jackson è maestra nel creare tensione tramite uno stile verbale leggermente antiquato, che implica e insinua ma non dice niente di diretto. Ci tratta come se noi conoscessimo già questa cittadina rurale americana, e il riturale della Lotteria che viene svolto lì.

“I primi ad arrivare furono naturalmente i bambini”. Perché naturalmente? Noi non sappiamo che cosa sta per succedere, e certo non sappiamo perché i bambini arrivano per primi, ma Shirkey Jackson ci tratta come se fossimo al corrente di tutto, e questo genera un lieve senso di angoscia.

Le frasi successive ci descrivono delle scene molto abituali, conosciute anche a noi, universalmente note a chiunque ricordi il sollievo e il leggero spaesamento che seguiva l’inizio delle vacanze estive: “il senso di libertà dava ai più un certo disagio; tendevano a riunirsi pian piano in crocchi per qualche momento prima di sfrenarsi nel gioco, e parlavano ancora della classe e del maestro, di libri e reprimende”. Bambini che non si sono ancora abituati all’improvvisa libertà, tutto normale.

Ma poi, senza soluzione di continuità…”Bobby Martin si era già riempito le tasche di sassi, e gli altri ragazzi seguirono presto il suo esempio, scegliendo i sassi più lisci e rotondi”. E questo cosa c’entra? Perché i bambini si riempiono le tasche di sassi, e li raccolgono in un mucchio in un angolo della piazza? Non ci è chiaro, ma Shirley Jackson non ce lo spiega; ci lascia solo questo indizio inquietante, accennato con naturalezza disarmante.



“Il bambino è morto. Non resta altro da sapere.

Mi hanno detto che nel Sud c’è una regina che uccide chi le porta brutte notizie. Quindi quando annuncio la morte del bambino, firmo anche la mia condanna a morte? La verità mangia bugie come il coccodrillo mangia la luna, eppure la mia testimonianza di domani sarà uguale a quella di oggi. No, non l’ho ucciso io. Anche se potevo volerne la morte. Desiderarla avidamente come un ghiottone di fronte alla carne di capra”

(Marlon James, “Leopardo Nero, Lupo Rosso”)


Marlon James scrive con ritmo, e con brutalità. Le frasi tendono ad essere brevi ed incisive (“Il bambino è morto”; “Non resta altro da sapere”; “No, non l’ho ucciso io”). Usa similitudini, viscerali e strane: “La verità mangia bugie come il coccodrillo mangia la luna”; “Desiderarla avidamente come un ghiottone di fronte alla carne di capra”. Sono frasi che non diremmo mai, e ci segnalano immediatamente che siamo entrati in un mondo diverso, lontano dalla modernità: qua si parla di leggende antiche (il coccodrillo che divora la luna), e si parla di esperienze rurali di terre diverse dalla nostra (come un ghiottone di fronte alla carne di capra).

Non ci dobbiamo dunque aspettare una narrazione facile, a noi familiare.



Io non parlo di prosa per scoraggiare gli scrittori, anzi, tutt’altro: io parlo di prosa perché le parole sono divertenti, ci puoi fare così tante cose. Perché accontentarsi di comunicare le informazioni nel modo più noioso possibile? Con qualche parola in più o in meno il testo prende vita, diventa dolce o inquietante o ironico o rabbioso.

Non dovremmo mai dimenticare il potere che abbiamo tutti fra le mani.



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