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Dark Academia: Dio di Illusioni vs The Atlas Six

“Dio di Illusioni” di Donna Tartt è la storia di un ragazzo che frequenta un college esclusivo, dove fa amicizia con un gruppo di studenti con cui condivide l’amore vorace per lo studio e la conoscenza. Il sapere, però, può anche essere pericoloso, e i ragazzi scivolano gradualmente in una spirale di scelte sbagliate e corruzione morale. È un libro meraviglioso, l’ho divorato e adorato…per cui, quando ho sentito parlare di “The Atlas Six” di Olivie Blake, ero naturalmente molto incuriosita: “Dio di Illusioni” ma con un risvolto fantasy? Dove devo firmare?

La trama sembrava promettente: i sei giovani maghi più potenti al mondo vengono scelti per un periodo di prova presso la Società Alessandrina (una società segreta, che raccoglie tutto il sapere dell’antica biblioteca di Alessandria). Dovranno vivere per un anno tutti insieme nella sede della Società. Al termine dell’anno, uno di loro verrà eliminato, e gli altri cinque entreranno a far parte a pieno titolo della Società Alessandrina. Prometteva di essere una bella storia di potere, conoscenza e corruzione.

Eppure.

“The Atlas Six” è stata una lettura così frustrante che non può risultare in una recensione normale. No. Qui ci vuole una battaglia, uno scontro epico che decreterà come si scrive davvero un romanzo in stile Dark Academia.

Spoiler: vince Dio di Illusioni. Ma andiamo ad analizzare il perché.

Innanzitutto, “Dark Academia” è un termine che si usa per definire un certo tipo di romanzi, caratterizzati da alcune cose: sono ambientati in un istituto prestigioso di qualche tipo, spesso antico, e hanno come tematiche principali la brama di conoscenza, e il decadimento morale che può portare.

Per cui, andiamo subito a vedere dove ha sbagliato The Atlas Six:


PUNTO 1: ATMOSFERA

Le descrizioni in “The Atlas Six” non sono memorabili. E questo è un problema, perché c’è un motivo se “dark academia” è diventato uno stile anche visivo di abbigliamento e arredamento: perché le descrizioni nei romanzi come “Dio di Illusioni” comunicano un’atmosfera estremamente precisa, vivida, di antichità e fascino:


La torre dell’orologio del Commons: mattoni coperti d’edera, bianco pinnacolo, incantato nella vaga lontananza. La forte impressione di una betulla di notte, che si stagliava nel buio gelida e slanciata come uno spettro. E le notti, più grandi di quanto sia immaginabile: nere, immense, spazzate dal vento; caotiche e pazze di stelle.


Entrando nella biblioteca, mi mancò il respiro e mi bloccai di colpo: librerie chiuse a vetro e pannelli gotici si elevavano per quasi cinque metri, fino a un soffitto affrescato e decorato di stucchi. In fondo alla stanza c’era un camino di marmo, grande quanto un sepolcro, e un lampadario a petrolio, gocciolante di prismi e fili di sferette di cristallo, scintillava nella penombra.

Era una stanza bellissima, per nulla simile a un ufficio, e più grande di quanto potesse sembrare dall’esterno; ariosa e bianca, con alto soffitto e tende inamidate ondeggianti alla brezza. In un angolo, vicino a una bassa libreria, un grande tavolo circolare su cui erano posati teiere e libri di greco; e fiori ovunque: rose, garofani e anemoni, sulla scrivania, sul tavolo, sui davanzali. Le rose, in particolare, emanavano un profumo anche troppo intenso, che appesantiva l’aria insieme a quello del tè al bergamotto e del tè nero cinese, oltre a una lieve traccia di odor di canfora, un po’ simile all’inchiostro. Respirando a fondo, mi sentivo soffocare. Ovunque volgessi lo sguardo, qualcosa di bello: tappeti orientali, porcellane, miniature come gioielli; un balenìo di colori rifratti che mi colpì come se fossi entrato in una di quelle piccole chiese bizantine, tanto spoglie all’esterno e dentro un paradiso a mosaici d’oro.


Donna Tartt in “Dio di Illusioni” riempie le sue descrizioni di soggettività. Non sono elenchi oggettivi di cose, sono le impressioni del protagonista di fronte a un ambiente nuovo, che trova irresistibile e pesante insieme. La torre dell’orologio ha un aspetto incantato, ma la betulla sembra uno spettro. La libreria immensa, gli affreschi, e il lampadario sono stupendi, ma il camino è paragonato a un sepolcro. Lo studio è bellissimo, pieno di fiori, libri, odore di inchiostro, ma anche di profumi grevi e soffocanti, troppo intensi.

Queste descrizioni funzionano e rimangono impresse perché comunicano la soggettività del personaggio.

Ecco cosa comunica invece Olivie Blake in “The Atlas Six”:


Il salone del pianterreno da cui erano entrati portava alla galleria del piano superiore e a una grande stanza graziosamente tappezzata di arazzi, oltre che a una serie di sale progressivamente più dorate. I colori degli arredi erano piuttosto cupi: andavano dal verde scuro al vinaccia.


Anche le camere, come il resto della casa, erano rigorosamente British. In ognuna c’erano un letto a baldacchino (uguale in tutte le stanze), una scrivania di medie dimensioni e un armadio, un camino di marmo bianco e un unico scaffale per libri vuoto.


Le pareti erano tappezzate di ritratti di aristocratici e ovunque c’erano busti vittoriani. L’architettura mostrava influenze greco-romane, con tracce di stile romantico, tendente più verso il neoclassicismo del Diciottesimo secolo che verso il classico puro.


Mi pare evidente la differenza. Queste descrizioni sono sia poco chiare, sia completamente impersonali. Che dovrebbe significare, “una serie di sale progressivamente più dorate”? In che senso?

Wow, in ogni camera c’erano un letto e una scrivania? Di medie dimensioni? L’emozione mi travolge.

L’architettura tende più verso il neoclassicismo del Diciottesimo secolo? Ok, molto bello, ma non siamo a lezione di storia dell’arte, io voglio sapere che cosa significano questi luoghi per i personaggi.

Passiamo tutto il romanzo nelle sale della Società Alessandrina, e non viene mai creato un vero attaccamento emotivo con l’ambiente.

Non dimenticherò mai, invece, il fascino e la malinconia intessuti negli ambienti di Donna Tartt.


PUNTO 2: PERSONAGGI

Olivie Blake si impegna un sacco sui personaggi, e ottiene molto poco.

In “The Atlas Six”, ogni personaggio possiede un paio di caratteristiche chiave (es. Tristan è intelligente e sospettoso, Nico è estroverso e agitato, Libby è insicura e perfezionista), che vengono ripetute all’infinito. Il carattere non viene fuori tramite le azioni, no, ci viene solo descritto direttamente, più e più volte:


Nico era agitato. Si agitava molto spesso. Essendo uno di quelli che avevano sempre bisogno di muoversi, faceva fatica a stare seduto fermo.


Per natura, Libby era sempre e innanzitutto sulla difensiva.

E poche righe dopo:

Quando si trattava di lui, Libby era sempre sul chi vive.


C’erano volte in cui l’inclinazione naturale di Tristan verso il cinismo alimentava un disturbo più generale e duraturo: una profonda paranoia cronica.

E poche righe dopo:

Tristan aveva sempre l’impressione che quando le cose cominciavano ad andare bene, era perché c’era in atto qualche gigantesco inganno ai suoi danni.

Sì, ho capito, non importa ripetere la stessa identica informazione ogni poche righe, così schiettamente, come se il lettore fosse stupido e non ci potessi arrivare.

Donna Tartt invece ci rivela le sfumature dei personaggi dal modo in cui ce li descrive, attraverso il punto di vista di Richard, che è il protagonista di “Dio di Illusioni”:


Il terzo ragazzo era il più singolare della compagnia. Snello ed elegante, troppo esile anzi, con mani nervose e uno scaltro volto da albino, incorniciato da una chioma fiammeggiante dei capelli più rossi che avessi mai visto. Pensavo (sbagliando) che vestisse come Alfred Douglas, o il contre di Montesquiou: bellissime camicie inamidate con polsini e gemelli, magnifiche cravatte, un soprabito nero che gli si gonfiava dietro mentre camminava, facendolo sembrare una via di mezzo tra uno studente principe e Jack lo Squartatore. Una volta, con mio sommo piacere, lo vidi anche portare un paio di pince-nez.

Donna Tartt non dice “Francis era elegante, eccentrico e irrequieto”.

Ci descrive il fisico “troppo esile”, i suoi abiti, le “mani nervose”, la “chioma fiammeggiante”, il soprabito che si gonfia, i pince-nez. Lascia che capiamo da soli, osservando il personaggio, il modo in cui si veste e si muove.


PUNTO 3: STRUTTURA

Questo è probabilmente il punto che mi ha definitivamente perdere le speranze con The Atlas Six.

Normalmente, in una storia, le cose succedono in modo consequenziale: accade un fatto, che ne fa accadere un altro, che ne fa accadere un altro, e così via. C’è spazio per essere flessibili, certo, ma in generale, una trama si fonda sull’idea che quello che succede abbia delle conseguenze.

“Dio di Illusioni” è una lenta, graduale discesa in un altro mondo. Seguiamo Richard passo passo, mentre si lascia sedurre dal mondo dei suoi compagni di università: prima parla con loro in biblioteca. Poi li rivede a lezione di greco. Poi vanno a cena insieme. Poi li accompagna nella loro casa in campagna. Ad ogni passaggio, si approfondisce il legame fra i personaggi. Finché Richard non si ritrova completamente invischiato con loro, scoprendo i loro segreti, e complottando con loro per commettere qualcosa di orribile.

La parola chiave qui è graduale. La storia è credibile perché ogni passo in sé è abbastanza piccolo, ma conduce sempre a qualcosa di più grande.

In “The Atlas Six”…niente ha importanza. Due personaggi creano un passaggio dimensionale che va dalla cucina al salotto. Così, per fare.


Fino a quel momento, Nico e Libby erano riusciti a creare con successo un tunnel spaziale dopo due settimane di ricerca e un intero giorno di incantesimi.


Questa è la prima volta che la cosa viene menzionata. E poi non ne parlano più.

A quanto pare due personaggi hanno passato due settimane a studiare come matti per imparare a creare un tunnel spaziale, ci sono riusciti, e la cosa viene liquidata così. Non ci vengono descritte le settimane di studio e ipotesi e lavoro. Non viene mai più menzionato il tunnel spaziale dopo questa pagina.

Allo stesso modo, qualche capitolo dopo, due personaggi fermano il tempo. Così. Riescono a fermare il tempo per qualche secondo, e lì per lì sono ovviamente molto eccitati.

Poi non ne parlano più, non lo dicono a nessuno, non ci riflettono più, e non fanno più esperimenti di nessun tipo sul tempo.

Perché? Che senso ha?


PUNTO 4: I TEMI

Le tematiche dei due romanzi sono, in teoria, piuttosto simili: l’amore per la conoscenza, e il fatto che questo amore può anche corrompere l’anima e portare a fare cose orribili.

Bene. Donna Tartt in “Dio di Illusioni” lo comunica così:


Forse che una cosa come “il fatale errore”, quell’appariscente, cupa frattura che taglia a metà una vita, può esistere al di fuori della letteratura? Una volta pensavo di no. Ora sono dell’opinione contraria. E penso che il mio sia questo: un morboso, coinvolgente desiderio verso tutto ciò che affascina.


C’è rimpianto e malinconia, in queste parole. C’è un giudizio che il narratore dà di sé stesso. Quando parla del suo amore per il sapere, lo definisce morboso. Si riferisce al “fatale errore” perché lui è uno studioso di greco, e il “fatale errore” era una componente tipica delle tragedie greche (come la superbia di Edipo, o l’egoismo di Giasone). È una frase che spiega con eleganza il tema del romanzo, rimanendo però fedele al personaggio, alla sua passione e al suo dolore.

E, cosa più importante, un lettore ci si può identificare. Chi è che non ha mai provato fascino e attrazione verso le cose più strane e oscure del mondo? È una sensazione comune.

Olivie Blake invece vuole esprimere lo stesso concetto, ma lo fa così, tramite il personaggio di Dalton Ellery:


Io non sono buono. Nessuno qui è buono. Conoscere è spargere sangue. Non esiste conoscenza senza sacrificio. p.176


A parte la prosa completamente priva di qualsiasi eleganza…ma che dovrebbe voler dire? Che significa “conoscere è spargere sangue”? È una cosa innaturale da dire, ed è impossibile identificarsi con il personaggio.

A proposito di personaggi: sia Richard che Dalton esprimono un giudizio su sé stessi, ma in modo molto diverso. L’autocritica di Richard è velata, si nasconde dietro agli aggettivi e ai rimandi alla mitologia (“il fatale errore”, “un morboso, coinvolgente desiderio”).

Dalton arriva e dice “Io non sono buono”. Giusto, perché perdere tempo con le sfumature? Perché lasciare che il lettore tragga da sé le proprie conclusioni? Il lettore è idiota, diciamogli chiaro e tondo che Dalton NON È BUONO, altrimenti non ci arriva.


In conclusione, che si può dire? È un peccato, perché avevo grandi aspettative. In teoria le tematiche e l’atmosfera “Dark Academia” mi piacciono molto, ma in pratica sono sempre rimasta delusa da questi libri…tranne “Dio di Illusioni”, l’unico e il solo, il capolavoro imbattuto.


Foto di Elena Bertocci

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