Un grumo viola di materia vivente si aggrappa alla pelliccia di un orso volante gigantesco.
Una famiglia vive schiava della colonia di ratti senzienti che occupa la loro casa.
Una donna con la testa a forma di insetto sogna di diventare una grande scultrice.
Benvenuti nel new weird.
New weird è un termine in cui mi sono imbattuta di recente, da quando sono rimasta irrimediabilmente invischiata nei mondi di China Miéville. Leggevo “La Fine di Tutte le Cose” e mi chiedevo: ci dovrà pur essere un nome per questo genere che non riesco bene a definire, che non è fantasy né fantascienza né horror, benché abbia elementi di ognuno di questi.
Nel 2002 il signor M. John Harrison si fece la stessa identica domanda, quando doveva scrivere l’introduzione per un racconto di China Miéville. Decise allora di definire la storia di Miéville "new weird", non sapendo di aver appena dato un nome a una tendenza che aveva iniziato a circolare fra gli scrittori di narrativa di genere.
Se siete profondamente insoddisfatti delle limitazioni e delle ingiustizie del mondo reale. Se vi siete sempre sentiti leggermente fuori posto. Se la realtà vi comunica un vago senso di inquietudine che non siete mai riusciti a spiegare. Il vostro posto è con noi, nel new weird.
LE ORIGINI: “NEW” RISPETTO A COSA?
Giustamente se un movimento si chiama “new”, in genere significa che è un rinnovamento di qualcosa che già esisteva.
Di storie bizzarre ed inquietanti ne sono sempre esistite, perché le persone si sono sempre sentite sconcertate davanti alla vita.
Uno dei primi autori a dedicarsi senza vergogna solo ed esclusivamente ai racconti del macabro e del grottesco fu, ovviamente, Edgar Allan Poe, al quale la letteratura del fantastico deve tantissimo.
Poi, un centinaio di anni fa, un signore che era assai sconcertato e inquieto riuscì a tradurre i suoi sentimenti in racconti così disturbanti, così particolari e fuori dagli schemi, che rivoluzionarono la scena letteraria americana e mondiale.
Il gentiluomo in questione è H.P. Lovecraft, ed è sua l’invenzione di weird come termine per definire le opere sue e dei suoi contemporanei. Storie di divinità cosmiche incomprensibili, di culti devoti ai mostri, storie di follia.
La cosa acquisì un certo seguito fra i suoi contemporanei, e ancor di più fra i posteri, tanto che “Lovecraftiano” è diventato un aggettivo a sé, adatto a descrivere ciò che è spaventoso in quanto incomprensibile, inconoscibile.
Il weird fu associato a quelle storie di stampo paranormale, spaventose ed innovative, che spuntavano su riviste di fantascienza di enorme successo come “Amazing Stories”.
CARATTERISTICHE: MA IN CHE SENSO “WEIRD”?
Ma dove il weird originario era alquanto borghese (le paure astratte degli uomini bianchi benestanti di fronte al diverso), il new weird è ben più urbano, sporco, contaminato.
Se il weird viveva di suggestioni, di accenni, di elucubrazioni mentali, il new weird è ben più dinamico ed esplicito nell’assurdità di quello che racconta.
Vi è mai capitato di leggere una storia, e di non sapere con certezza in che genere collocarla? Prendiamo “Saga”, epopea a fumetti di Brian Vaughn e Fiona Staples: è ambientata nello spazio, sì, e ci sono alieni e astronavi, per cui sembrerebbe una storia di fantascienza; tuttavia, è piena di elementi soprannaturali di stampo puramente fantasy (incantesimi, bastoni magici, fantasmi), e ha una struttura che ricorda le saghe epiche fantasy. Eppure, ha anche delle caratteristiche pulp e horror che rendono difficile inserirla in un genere preciso.
È fantasy. Ha elementi di fantascienza. Decisamente pesca a piene mani dall’horror. È tutti questi generi, ma li trascende tutti, creando nuove regole di narrazione.
La rottura con le regole narrative è una delle caratteristiche fondamentali del new weird, cosa che contribuisce assai a rendere questi romanzi imprevedibili e sconvolgenti. “La Fine di Tutte le Cose” di China Miéville mi ha regalato una sensazione che non provavo da tanti anni: quel piacere frizzante di quando ti immergi in un libro, e non hai veramente nessuna idea di dove potrebbe portarti questa avventura. Nessun cliché, niente di prevedibile, solo pura sorpresa.
ESPONENTI: DALL’ITALIA AL GIAPPONE E IN TUTTO IL MONDO
Da piccola, lessi un racconto che non avrei dovuto leggere: mi spaventò, questo è certo, ma ne fui assolutamente conquistata, mi lasciò una fortissima impressione che non sapevo spiegare. All’epoca non sapevo come mai una storia così strana e così cupa potesse essermi addirittura piaciuta.
Il racconto si chiamava “I Topi”, e l’autore era Dino Buzzati.
Alcuni anni più tardi, presi in mano “1Q84” di Haruki Murakami, e pensai che non avevo mai letto una cosa assolutamente folle come quella. Mi piacque, però.
Non collegai fra queste due esperienze, queste due brevi incursioni nel territorio della stranezza. Nemmeno dopo, quando incontrai David Mitchell (con “Cloud Atlas” prima, e con “Le Ore Invisibili” poi).
Ho ritrovato pezzi di new weird nelle storie di autori di tutto il mondo, nascosti fra le correnti di romanzi alla moda.
Forse per questo ci ho messo tanti anni a capire che esisteva un termine che univa tutti questi esempi di letteratura bizzarra: il new weird è frutto del lavoro solitario di una mente originale, e fa capolino ovunque ci sia un autore che ha il coraggio di esprimere le proprie inquietudini in modo completamente, gioiosamente innovativo.
ESEMPI PRATICI: UN PAIO DI CITAZIONI
Bella la teoria, ma il fascino del new weird è ben difficile da far capire se non si prendono in mano degli esempi effettivi.
Come punto di partenza, possiamo tuffarci senza ritegno nei mondi di China Miéville. In “La Fine di Tutte le Cose”, seguiamo il protagonista Billy Harrow mentre si inoltra in una Londra magica che non sapeva esistesse. Billy incontra molti personaggi bizzarri, ma forse il più memorabile è l’antagonista, capo della malavita magica londinese, colui che chiamano il Tatuaggio:
Tutto il torso nudo dell’uomo era coperto da tatuaggi. Lungo i bordi c’erano volute di vortici colorati, frattali fatti di nodi celtici intrecciati, e al centro c’era una grande faccia stilizzata, delineata in tinte scure ed eseguita con tratto sicuro ed esperto. Una faccia maschile, in colori innaturali, anziana e affilata, con occhi rossi, una via di mezzo fra un professore e un diavolo. Billy la guardò, affascinato.
Il tatuaggio si mosse. I suoi occhi dalle palpebre pesanti incontrarono quelli di Billy e i due si fissarono a vicenda. […]
Aprì la bocca, e questo fece spalancare una gola disegnata, un buco di inchiostro scuro. Poi parlò con una voce profonda dall’accento londinese.
“Dov’è il kraken, Harrow? Quali sono i tuoi piani?”
Bizzarro. Si avverte quella forte e inconfondibile sensazione di stranezza, di repulsione, ma anche di divertimento.
In “Perdido Street Station”, sempre dello stesso autore, ci troviamo in una città magica, un incrocio fra stempunk e fantasy, dove vivono esseri di ogni genere. Uno di questi è il Tessitore, un ragno gigantesco che esiste su più dimensioni e si occupa di tessere la trama del mondo, modificando gli eventi e le traiettorie delle persone. Questo è ciò che succede quando il Tessitore entra in contatto con i nostri protagonisti:
Il Folle Dio Danzante si muoveva nella stanza con passo selvaggio e alieno. Ci ha stretti a lui, noi rinnegati, noi criminali. Noi fuggiaschi. Congegni che svelano segreti; garuda confinati a terra; giornalisti che inventano le notizie; scienziati criminali e criminali scientifici. Il Folle Dio Danzante ci ha riuniti tutti come adoratori erranti, rimproverandoci di esserci smarriti. (p.471)
C’è un misticismo nelle parole usate per descrivere il Tessitore: “ci ha riuniti tutti come adoratori erranti, rimproverandoci di esserci smarriti”. C’è un senso di stranezza e meraviglia che pervade tutto il romanzo, ma si esprime al suo massimo di fronte al Tessitore.
Dall’altra parte del mondo abbiamo invece Haruki Murakami, autore di molti molti libri strani. La sua prosa è onirica: descrive cose impossibili, che non appartengono né alla realtà normale né a nessun genere prestabilito, ma lo fa con una nonchalance invidiabile.
Ecco un piccolo assaggio da “Kafka Sulla Spiaggia”:
Alzati, disse il cane.
Nakata deglutì. Il cane parlava. Anche se a essere precisi non è che avesse proprio pronunciato quella parola. La bocca non si era mossa. Il cane aveva trasmesso il suo messaggio a Nakata senza emettere alcun suono.
Alzati e seguimi, gli ordinò il cane. (kafka sulla spiaggia p.132)
Perfetto, non c’è problema. La serenità con cui il personaggio di Nakata accoglie il cane parlante rende la scena ancora più surreale.
E infine veniamo a Jeff Vandermeer, forse l’autore più famoso di tutto il panorama new weird insieme a China Miéville. Vandermeer ci è immerso fino al collo: ha anche curato un’antologia insieme alla moglie Ann, intitolata appunto “The New Weird”.
Il suo modo di esplorare l’assurdo è viscerale, corporeo. Come questa descrizione dal suo libro “Borne”:
Trovai Borne in una plumbea giornata di sole in cui Mord, l’orso gigante, si aggirava dalle parti di casa nostra. Ai miei occhi non era altro che materia organica di risulta, all’inizio. Non sapevo quanto sarebbe stato importante per noi. Non potevo sapere che Borne avrebbe cambiato tutto.
All’epoca Borne non era un gran spettacolo: viola scuro, grande più o meno quanto un pugno, abbarbicato alla pelliccia di Mord come un anemone di mare spiaggiato. Lo trovai solo perché il viola della sua pelle si accendeva di un bagliore verde smeraldo ogni mezzo minuto circa, come un lampeggiante di emergenza.
Qua abbiamo della “materia organica di risulta” di colore viola, ma che lampeggia di verde ogni trenta secondi, abbarbicata alla pelliccia di un orso gigantesco (che, tra l’altro, sa anche volare). L’immagine è potente, chiara. D’impatto. E, inutile specificarlo, veramente strana.
Spero di aver stimolato la vostra curiosità: io, senz’altro, continuerò ad esplorare questo genere fresco e innovativo per definizione. Forse anche perché, oltre a tutte le sue molte attrattive, il new weird offre uno spazio di espressione a chi è sempre un po’ insoddisfatto, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo. A noi, che siamo sicuri che ci debba essere qualcos’altro nella vita, nascosto fra le pieghe del quotidiano, e che riusciremo a scovarlo se solo prestiamo abbastanza attenzione.
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