top of page
Cerca
Immagine del redattorebertoccielena

Analisi di Scrittura: David Mitchell

David Mitchell non è uno scrittore, è un camaleonte. E non si parla abbastanza di quanto sia eccezionalmente bravo.

Analizzare lo stile di un autore è un processo affascinante, perché alcuni hanno una voce inconfondibile (il lessico che scelgono, la struttura delle frasi, l’uso della punteggiatura, le figure retoriche), e altri invece sanno variare il loro stile a seconda della storia che raccontano. Ma nessuno, io credo, sa trasformarsi tanto quanto David Mitchell.

Guardiamo questi quattro passaggi:


-Poi si è verificato un fatto curioso. Il selvaggio, ricurvo sotto i colpi, ha sollevato la testa, ha incrociato il mio sguardo e mi ha lanciato una misteriosa e amichevole occhiata d’intesa! Come se un attore notasse nel palco reale un vecchio amico da tempo perduto di vista e, all’insaputa del pubblico, gli comunicasse d’averlo riconosciuto.


-Un trio di ragazzine vestite da Barbie Putt*na mi si sono avvicinate pescando a strascico per tutta l’ampiezza del marciapiede. Sono passato in strada per evitare una collisione. Ma mentre ci avvicinavamo, hanno tolto la carta ai loro sgargianti leccalecca e l’hanno lasciata cadere. Il mio senso di benessere bombardato. Voglio dire: eravamo accanto a un cestino! Tim Cavendish, il cittadino disgustato, ha esclamato alle criminali: “Perché non raccattate le cartacce?”


-Jonny Penhaligon, continuando a scolarsi la sua birra ambrata, mostra il dito medio a Fitzsimmons; il pomo d’Adamo bitorzoluto si muove su e giù. Pigramente immagino di affettarglielo con un rasoio.


-Spalanco le tende della mia camera da letto ed ecco lì il cielo arido e l’ampio fiume affollato di navi e barche eccetera, ma io sto già pensando agli occhi color cioccolata di Vinny, al profumo dello shampoo sulla sua nuca, alle gocce di sudore sulle spalle e alla sua risata sorniona e già il mio cuore impazzisce, e Dio come vorrei svegliarmi nella sua casa in Peacock Street anziché qui nella mia stupida camera da letto.


Sono tutti di Mitchell, e non vengono neanche da quattro libri diversi, bensì solo da due: “Cloud Atlas” e “Le Ore Invisibili”, entrambi romanzi composti da molte storie che avvengono in diversi punti temporali e hanno come protagonisti personaggi differenti.

Ogni volta, l’immedesimazione con il personaggio principale è totale.

Prendiamo il primo estratto, da “Cloud Atlas”: un uomo americano si trova in Polinesia nel 1800, e vede uno schiavo aborigeno frustato. Lo schiavo alza gli occhi, e fra i due si crea un attimo di riconoscimento reciproco. “Una misteriosa e amichevole occhiata d’intesa”. E come viene descritto questo momento? “Come se un attore notasse nel palco reale un vecchio amico da tempo perduto di vista e, all’insaputa del pubblico, gli comunicasse d’averlo riconosciuto”. Il protagonista fa il paragone con qualcosa che conosce, che appartiene al suo mondo di ricco americano ottocentesco. Mitchell qui un linguaggio dal sapore leggermente d’epoca (“perduto” invece di “perso”, un “fatto curioso”, la parola stessa “selvaggio” per indicare una persona indigena).

Qual è invece la scelta delle parole nel secondo estratto, sempre di Cloud Atlas? “Un trio di ragazzine vestite da Barbie Putt*na”. Bello. Trasuda un atteggiamento da vecchio acido, stizzoso e arrogante, che è infatti proprio il genere di persona che è Timothy Cavendish. Il modo in cui si esprime è sempre esagerato e melodrammatico: “evitare una collisione”, “il mio senso del benessere bombardato”, “le criminali”. Tutto è distorto e amplificato nella visione di Cavendish, e questo si riflette nel lessico scelto, e nell’abbondanza di punteggiatura (punti, due punti e punti esclamativi a non finire).

Consideriamo invece il terzo estratto, il più breve, ma incisivo. Siamo adesso passati a “Le Ore Invisibili”, e il nostro protagonista è Hugo Lamb, un giovane studente universitario ferocemente intelligente e del tutto distaccato. Hugo osserva i suoi compagni, che lo considerano un amico. Li osserva, mentre loro parlano e bevono e si divertono. Non è ostile verso di loro, solo piacevolmente distante: il ritmo delle frasi è incisivo, ma non affrettato; non ci sono esagerazioni, né parole melodrammatiche, né un’abbondanza di punti esclamativi. Hugo è oggettivo, sereno e spassionato: trova leggermente sgradevole Fitzsimmons, e immagina con distacco come sarebbe tagliargli la gola. Possiamo definirlo inquietante, spiacevole, ma sicuramente è ben lontano dal sentimentalismo del primo protagonista o dalla furiosa invettiva del secondo.

E infine, la terza, Holly, anche lei da “Le Ore Invisibili”. A questo punto della storia, Holly è una ragazzina di quindici anni, forte, energica e innamorata. E si vede: questo discorso di quattro righe non ha neanche un punto. Holly è un fiume in piena, le parole le fluiscono con rapidità ed entusiasmo, come se i suoi pensieri fossero troppo frizzanti per essere limitati dalla punteggiatura.

Strano come la prosa si modifichi, per calzare i panni del personaggio e mettersi al passo coi suoi pensieri.

Vediamo un altro esempio, ancora da “Le Ore Invisibili”:


Naturalmente non mi è permesso lamentarmi, perché sarebbe come esercitare una sgradita pressione. Un tempo Holly e io parlavamo di qualsiasi cosa, qualsiasi cosa, adesso invece continuano a saltare fuori zone proibite. Tutto questo mi rende…no, non mi è nemmeno permesso di essere triste, perché la tristezza mi fa sembrare un ragazzino imbronciato che non riesce a ottenere il sacchetto di caramelle che ritiene di essersi meritato.


Ecco un nuovo personaggio, Ed Brubeck, che porta con sé un nuovo stile di narrazione: Ed è frustrato, e quindi insiste sulle cose che lo feriscono (“Un tempo Holly e io parlavamo di qualsiasi cosa, qualsiasi cosa”). È anche confuso e arrabbiato, e quindi esita e si corregge (Tutto questo mi rende…no, non mi è nemmeno permesso di essere triste). Usa infine una similitudine sminuente (“mi fa sembrare un ragazzino imbronciato che non riesce a ottenere il sacchetto di caramelle che ritiene di essersi meritato”), si dà del bambino, si accusa di essere infantile, eppure non riesce a sopire la rabbia.

Per contrasto, torniamo solo per un attimo a “Cloud Atlas”:


Il Terzo Catechismo stabilisce che possedere qualcosa, anche solo un pensiero, significa per noi serventi rinnegare l’amore che Papa Song ci dimostra attraverso il suo Investimento. Mi sono chiesta se Yoona osservasse uno qualunque dei Catechismi. Mi ha mostrato una scatola metallica piena di orecchini spaiati, braccialetti e collane. Si è infilata un diadema di smeraldi fra le trecce, mi ha messo al collo un filo di perle scure. Le ho chiesto come avesse scovato la stanza segreta.

“Curiosità”, ha risposto lei.

Non conoscevo quella parola. “È una torcia o una chiave?”

Yoona ha detto che era entrambe le cose.


Qua siamo di fronte a due androidi che vengono usate come schiave, sotto rigide regole chiamate Catechismi. Sonmi racconta di quando la sua amica Yoona le ha mostrato una scatola piena di tesori, in una stanza segreta. Colpisce il modo di parlare di Sonmi, allo stesso tempo semplice e d’effetto. I discorsi di Sonmi sono d’impatto anche senza essere stravaganti (non c’è mai un punto esclamativo, mai una sintassi particolarmente complicata, mai paroloni esagerati): a renderla così incisiva sono il ritmo, e la precisione.

“Curiosità”, ha risposto lei.

Non conoscevo quella parola. “È una torcia o una chiave?”

Yoona ha detto che era entrambe le cose.

Frasi brevi, chiare e d’impatto.

Per ultimo, da “Cloud Atlas” non può mancare Zachry. Qua Mitchell ha superato sé stesso:

Senti, sono sgambato giù lungo il burrone da dove ero arrivato, sì, il cacciatore cacciato. Il Kona più vicino mi ha inseguito, altri sono saltati in sella, ghignando all’idea. Il panico ti mette le ali ai piedi, ma ti smerda la mente, così ho sconigliato fino a Pà. Oh, a nove anni che fai: segui l’istinto e non pensi.

Zachry è un personaggio interessante perché abita un futuro distopico in cui la Nuova Zelanda ospita una delle poche colonie di esseri umani rimaste al mondo. La cultura e lo stile di vita di queste persone sono molto diversi dai nostri, e questo si riflette nel linguaggio: non è incomprensibile, ma ha una struttura più libera rispetto alla nostra, ed è fitto di parole e modi di dire che noi non abbiamo. Mi piace particolarmente il verbo “sconigliare”: non è un brutto modo, in fondo, di descrivere la fuga a capofitto di chi viene cacciato e rincorso.

E quindi torniamo alla questione iniziale: perché si parla così poco, del buon David Mitchell? Quasi nessuno scrittore che conosco ha la stessa padronanza delle parole, la stessa capacità di trasformare il lessico, la sintassi, la lunghezza delle frasi, la punteggiatura, tutto, per riflettere il carattere dei suoi personaggi. È davvero un maestro.

È un piacere incontrare qualcuno che sa creare con tanto assoluto talento, e che regala al mondo storie così belle: è una delle cose che ci salvano e ci donano gioia ed emozione, anche quando la vita risulta un po’ insoddisfacente.

Voglio allora concludere con un’altra frase di “Cloud Atlas”: parla della musica, però io credo che si possa applicare a tutta l’arte in generale.


I compositori sono puri e semplici scribacchini di pitture rupestri. Si scrive musica solo perché l’inverno è eterno e perché, senza, i lupi e le tempeste di ghiaccio ci azzannerebbero alla gola anche prima.


Foto di Elena Bertocci

3 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Comments


Post: Blog2_Post
bottom of page